raffaele solaini
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Il Trattato dell’argomentazione di Chaïm Perleman e Lucie Olbrechts Tyteca ha definito l'argomento di autorità, altrove chiamato anche argumentum ad verecundiam, “l’uso di atti o dei giudizi di una persona o di un gruppo di persone come mezzo di prova in favore di una tesi” (Perleman, 1989: 322). In questo modo, la figura, sistematicamente tralasciata dai manuali di retorica di impostazione classica, e che solo in ambito filosofico ha ricevuto qualche attenzione soprattutto in alcune pagine di John Locke (Essay, IV, XVII, 19-22) e di Arthur Schopenhauer (1991: 52), guadagna alfine una collocazione all’interno del sistema retorico, dove viene identificata con la citazione. Infatti, mentre la prima retorica di impostazione aristotelica mostra attraverso ripetuti accenni la consapevolezza della funzione argomentativa di un autorevole “già detto” (e dell’autorità connessa all’atto del dire stesso), già Quintiliano lascerà in eredità al medioevo una concezione dell’auctoritas ridotta prevalentemente a norma stilistica.
Il primo, ma anche il più calzante, precedente dell'argomento di autorità si trova dunque nel secondo libro della Retorica aristotelica, dove vengono menzionati i luoghi generali sui quali è possibile costruire gli entimemi dimostrativi:


“Un altro luogo si trae dal giudizio anteriore su di una
questione identica, o simile o contraria; soprattutto se così hanno
giudicato tutti gli uomini e sempre, o se non tutti, almeno la
maggior parte, oppure i sapienti o tutti o i più, oppure i buoni,
oppure gli stessi giudici, o coloro di cui i giudici rispettano
l’autorità; oppure se così sono i giudizi di coloro a cui non si può
opporre un giudizio contrario, ad esempio quelli dei padroni;
oppure di coloro a cui non è bello opporre un giudizio contrario,
come quelli degli dei, o del padre, o dei precettori.”
(Rh, 1398b 20-27)


La citazione viene così isolata come procedimento retorico autonomo e collegata espressamente ad un contesto autorevole che rappresenta la condizione preliminare necessaria affinché la strategia argomentativa risulti efficace: solo le parole di coloro che a diverso titolo detengono un particolare prestigio possono svolgere il ruolo di garanzia in favore di una tesi.
È importante notare come, mentre individua una specifica classe di premesse possibili, il luogo aristotelico ripropone un criterio epistemologico più generale, collegandosi anche ai fondamenti stessi del ragionamento discorsivo per come sono tratteggiati fin dall’apertura stessa dei Topici:


“Fondati sull’opinione per contro sono gli elementi che
appaiono accettabili a tutti, oppure alla grande maggioranza,
oppure ai sapienti, e tra questi a tutti, o alla grande magioranza, o
a quelli oltremodo noti e illustri.” (Top, 100a)


Fin dal momento della sua prima definizione dunque, l'argomento di autorità si ricollega ad una dinamica ben più vasta che eccede i limiti della figura. Si tratta di un primo importante indizio di come esso non possa e non debba essere considerato come singola figura retorica di superficie ma come spia testuale di una dinamica linguistica più profonda.
I successivi manuali di retorica non continuano la tradizione del luogo del giudizio anteriore e stravolgono la funzione argomentativa dell’autorità rispetto all’impostazione aristotelica. Sia Cicerone che Quintiliano, infatti, menzionano un “locus ab auctoritate”, delineando però una figura affatto diversa dall’argomento di autorità per come è stato inteso della neoretorica perelmaniana. In un passo de De inventione, che riprende alla lettera un brano della Rhetorica ad Herennium (Rhet ad Her 2,48), Cicerone definisce il luogo dell’autorità la “rievocazione di quanto stesse a cuore ciò di cui si discute a coloro la cui autorità debba essere tenuta in massimo conto” (Inv. 1,101). L’auctoritas dunque non viene qui riferita a giudizi precedentemente espressi, dei quali rappresenterebbe una garanzia di verità; non è un principio discorsivo attraverso il quale ordinare il “già detto” in repertori cui attingere per trovare premesse indiscutibili in quanto autorevolmente affermate. Nell’ottica ciceroniana, l’autorità è funzionale ad una diversa strategia argomentativa, che consiste nell’ostacolare ogni possibile replica mostrandone la scarsa opportunità pragmatica nel contesto culturale dato. L’autorità del dire non viene considerata per la sua capacità di provare una tesi ma solo per le relazioni che impone fra i partecipanti al discorso.
Sebbene questi due aspetti sono certamente collegati, è importante notare la diversa prospettiva che si impone. Quintiliano arriva a contrapporre esplicitamente e frontalmente il locus ab auctoritate, che egli interpreta seguendo fedelmente l’impostazione ciceroniana, e l’autorità che accompagna i giudizi espressi da personalità di prestigio. Nel quinto libro delle Institutiones specifica che il ruolo argomentativo dell’autorità non deve essere confuso con la citazione “di giudizi su cui ci si pronuncia sull’esempio di una causa già celebrata” ma consiste nel far valere il peso di “tutto ciò che può essere riferito sull’autorità di genti, popoli, savi, cittadini insigni e popoli illustri.” (Inst. V,11,36). L’identificazione invalsa nell’uso greco fra auctoritas e sententia, - in greco krísis, lo stesso termine usato da Aristotele per definire il “luogo del giudizio anteriore” - viene messa in discussione e infine rifiutata.
Da questo momento il principio dell’autorità si allontana dalla costruzione e dalla manipolazione retorica del discorso e viene riferito piuttosto ad un generico contesto culturale che, nel momento della propria decadenza, cerca di riaffermare se stesso. Il fatto che il prestigio riconosciuto ad un auctor incida sulla definizione del valore argomentativo delle sue parole determinandone la forza pragmatica e alterandone il valore di verità viene rimosso. Conseguentemente, la citazione scompare dai manuali di retorica. Un’indagine di Antoin Compagnon attesta la sua “tardiva e occasionale comparsa nei trattati retorici a partire dal secolo XVII.”
Anche sotto un diverso aspetto le Institutiones rappresentano una tappa importante nella ricostruzione delle diverse funzioni progressivamente riconosciute all’auctoritas. Infatti, mentre ne svilisce il valore argomentativo, Quintiliano recupera il tema dell’autorità e della citazione a livello dello stile: i testi autorevoli rappresentano innanzitutto un repertorio di figure, un modello formale attraverso il quale ogni scolaro può apprendere la migliore eleganza, ma il cui valore argomentativo passa in secondo piano. Questa impostazione rimarrà prevalente se è vero che ancora verso la metà del secolo corrente Heinrich Lausberg considera l’auctoritas unicamente una norma stilistica imposta dal primato della tradizione letteraria. Lo slittamento del valore retorico dell’autorità dal piano argomentativo a quello stilistico è del resto solidale con la complessiva ridefinizione dei contorni della disciplina e con la sua trasformazione da ancella prima della dialettica e teoria del discorso persuasivo ad arte dell’elocutio.
Non deve quindi sorprendere che l'argomento di autorità come citazione riemerga solo in epoca moderna all’interno della neoretorica perelmaniana, nel momento dunque della rilettura dei testi aristotelici. Si tratta di un recupero importante in quanto ripropone all’attenzione teorica nodi cruciali per una teoria del discorso quali la verifica di come l’autorità del precedente, del già detto, e del dire stesso, limiti e indirizzi la possibilità di fare nuove affermazioni. Si tratta ora di verificare se la definizione perelmaniana appaia teoricamente soddisfacente o se non meriti piuttosto di essere messa in discussione.

L'ARGOMENTO DI AUTORITA`
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CENNI SULLA STORIA DELLA FIGURA: LE TAPPE DI UNA SCOMPARSA
UN APPROCCIO DIVERSO: L'ARGOMENTO DI AUTORITA` SECONDO LA LINGUISTICA PRAGMATICA
La riduzione dell'argomento di autorità alla citazione costituisce una qualificazione puramente estrinseca della figura, che risulta così caratterizzata in modo non adeguato a riconoscere e isolare le forme autoritarie del dire. Se è vero, infatti, che il valore argomentativo delle forme citazionali dipende dall’autorità riconosciuta a coloro le cui affermazioni vengono riportate, è anche vero, d’altro lato, che non ogni forma di citazione rappresenta un argomento di autorità. Ad esempio, il decentramento enunciativo, la caratterizzazione più o meno esplicita delle proprie parole come parole originariamente altrui, può in altre circostanze costituire il meccanismo base dell’ironia detta, appunto, citazionale, che dell'argomento di autorità costituisce l’opposto, sia in quanto assume l’originaria enunciazione come sfondo rispetto al quale si definisce contrastivamente, sia in quanto non mira ad affermare un significato unico ma a moltiplicare il valore semantico di un enunciato attraverso il rinvio ai suoi possibili echi interni. Più in generale, citare un testo non equivale necessariamente a mostrarlo in un’ipotetica staticità semantica, riaffermandone una verità unica e impermeabile ad ogni possibile rilettura da prospettive diverse, ma può, al contrario, significare riaprirlo, assoggettandolo a nuove interpretazioni. Ciò vale soprattutto in ambito letterario, dove la citazione istituisce un rinvio ad un’altra opera, cui ci si avvicina con intenti ermeneutici. In questo caso il testo d’autore non offre verità ma pone domande, non costituisce un prototipo da riproporre passivamente ma un archetipo da indagare.
Così come non sempre la citazione costituisce un argomento di autorità, allo stesso modo neppure ogni uso autoritario del linguaggio si manifesta attraverso forme citazionali. Non necessariamente l’autorità posta a sostegno di un asserto deriva dal rimando intertestuale a precedenti enunciazioni. Un enunciato può anche fare direttamente riferimento all’autorità della propria enunciazione, imponendo la forza del suo stesso dire come ratifica della verità di ciò che asserisce (configurando così un argomento di autorità). La definizione dell'argomento di autorità come citazione fallisce dunque innanzitutto nel riconoscere tutti quei casi in cui il valore argomentativo del dire sia collegato al prestigio del locutore stesso, che si fa garante in prima persona della verità delle proprie parole, senza rinviare ad alcun autorevole precedente.
Per tutte queste ragioni sembra necessario abbandonare la definizione manualistica dell'argomento di autorità, verificando se sia possibile individuare altri criteri, al tempo stesso più precisi ma anche maggiormente comprensivi, attraverso cui riconoscere le forme assiomatiche di un’argomentazione. Si tratta insomma di delineare una matrice logico-pragmatica attraverso la quale tracciare un confine fra la strutturale autorevolezza del dire e l’autorevole dogmatismo.

Il maggiore contributo in questo senso è stato fino ad oggi offerto da Oswald Ducrot, che ha dedicato al tema un suo intervento, con il quale ha inserito l’analisi dell'argomento di autorità all’interno della sua più vasta strategia di ricerca, mirante ad intersecare problematiche retorico-argomentative con i più recenti strumenti offerti dalla linguistica pragmatica. L’impostazione ducrotiana si è rivelata particolarmente feconda, così che il suo articolo costituisce il necessario punto di avvio di una rilettura critica dell'argomento di autorità, anche se forse non un punto di arrivo del tutto soddisfacente.
Al “ragionamento per autorità” propriamente detto, Ducrot affianca una struttura argomentativa che egli definisce “autorità polifonica”. Questa nuova categoria riunisce le forme citazionali implicite, quelle cioè in cui il rinvio ad un’autorevole enunciazione avviene attraverso meccanismi morfo-sintattici. Rappresentano esempi dell’autorità polifonica enunciati introdotti da sintagmi indefiniti quali “Pare che”, “Si pensa che” o “Dicono che”. Queste forme, che pur non menzionano esplicitamente precedenti enunciazioni, alludono attraverso la loro forma grammaticale ad enunciatori esterni al contesto discorsivo, e quindi alle tesi da essi sostenute sul tema in questione. Mentre il ragionamento per autorità - ossia la citazione – dice (enuncia) il dire autorevole che viene posto a sostegno di una tesi, l’autorità polifonica si limita a mostrarlo, e in questo definisce la propria particolarità.
Vista in quest’ottica, l’autorità polifonica si colloca come categoria-ponte fra le forme esplicite dell'argomento di autorità e la normale assertività. Da un lato, infatti, la citazione costituisce semplicemente un’esplicitazione, e per ciò stesso anche una razionalizzazione dell’autorità polifonica. Dall’altro, però, l’autorità polifonica rappresenta un caso particolare del più generale meccanismo pragmatico per cui ogni enunciato mostra il proprio dire, rinvia autoreferenzialmente alla propria enunciazione. Riletto attraverso la dinamica sui-referenziale fra dire e mostrare, ancora una volta l'argomento di autorità emerge come figura non manualisticamenre riducibile ad una pratica citazionale ma che deve essere studiata nel suo inestricabile rapporto con gli usi assertivi del linguaggio. Ogni enunciato, infatti, mostra la propria enunciazione e la maggior o minor autorità che la sostiene.
Mentre restituisce al domino dell'argomento di autorità la sua corretta estensione, Ducrot ne perde anche di vista criteri definitori certi, cadendo così nell’impossibilità di tracciare confini netti della figura (ed è questo il limite fondamentale del suo articolo). Argomento di autorità e assertività tendono a coincidere e Ducrot stesso ventila l’ipotesi che non siano in fondo distinguibili, non essendo teoricamente rilevante quale enunciazione venga mostrata, se sia quella stessa che attualizza un asserto in un atto di parola o piuttosto una terza cui si fa riferimento. In ogni caso, l'enunciato rinvia autoreferenzialmente alla propria enunciazione ed è in quanto si costituisce come atto di parola più o meno autorevole che può ambire alla verità. In modo sostanzialmente non diverso da ogni altra asserzione, l'argomento di autorità costituisce un meccanismo “che permette di leggere un’asserzione come il fatto stesso che essa asserisce, cioè, in conclusione, di vedere apparire il mondo attraverso il discorso tenuto su di esso.”
Ancora una volta, sembra che l’unico criterio, per quanto teoricamente non significativo, attraverso cui distinguere l'argomento di autorità dall’asserzione sia costituito dal decentramento enunciativo anche solo implicitato da forme quali “Pare che” o “Si dice che”. Rispetto al meccanismo principale della sui-référence, la citazione si distingue solo in quanto non rinvia semplicemente all’atto linguistico che la costituisce ma anche ad una terza enunciazione (all’enunciazione citata), producendo così un’asimmetria fra il piano locutivo-proposizionale (piano dell’enunciato) e il piano della sua attualizzazione pragmatico-contestuale (piano dell’enunciazione). Tale dinamica è responsabile della preferenza che le è stata accordata come modello dell'argomento di autorità, in quanto, cioè, isolando gli aspetti pragmatici, rappresenta un caso paradigmatico di come l’autorità associata all’atto del dire si faccia garante della verità del detto. Bisogna evitare però di proiettare sulla complessiva definizione della categoria retorica le caratteristiche particolari, e non necessariamente pertinenti, del modello esplicativo adottato, anche dove queste siano effettivamente servite all’analisi per estrinsecare distinzioni teoriche altrimenti nascoste. Come si è visto, la citazione, lungi dal esaurire ogni possibile occorrenza dell'argomento di autorità ne costituisce piuttosto un caso particolare e sostanzialmente periferico.
È dunque necessario avanzare una definizione alternativa dell'argomento di autorità, caratterizzandolo in funzione del meccanismo sui-referenziale che lo costituisce. Diremo allora che si ha un argomento di autorità quando:
L’enunciato comprende una marca sui-referenziale codificata che ne qualifichi l'enunciazione, definendone innanzitutto la forza illocutiva assertiva.
Attraverso il rimando sui-referenziale l’asserzione viene inserita all’interno di un contesto ritenuto autorevole, che viene posto come garante della verità dell’asserto.
La definizione proposta, che supera quella invalsa nei manuali in quanto comprende le occorrenze dell’argomento di autorità sotto forma di citazione, integrandole però in una casistica più ampia, presenta una serie di vantaggi decisivi. Innanzitutto risponde alle critiche precedentemente mosse all’identificazione dell'argomento di autorità con la citazione, sia in quanto include gli enunciati sorretti dall’autorità del locutore stesso, sia in quanto esclude quei casi in cui il rimando citazionale non abbia lo scopo di collegare l’asserto ad un contesto enunciativo autorevole. Inoltre, l’intero ambito dell'argomento di autorità potrà essere ampliato e riorganizzato una volta che la figura non sia definita in funzione delle sue caratteristiche più estrinseche ma attraverso il meccanismo strutturale che la determina.
Poiché la sui-référence risulta essere una categoria non chiaramente definita nell’interpretazione dei diversi autori, oscillando fra una accezione più limitata della nozione, secondo la quale rappresenta una caratteristica attribuibile a specifiche forme grammaticali, e una lettura più ampia, che la pone come matrice fondamentale di ogni dinamica pragmatica, anche la definizione dell'argomento di autorità costruita su di essa mantiene dei margini di ambiguità e di elasticità. Tale indeterminatezza non deve però essere intesa come sintomo di debolezza del sistema adottato, ma come esito teorico dell’impossibilità di rendere attraverso categorie morfo-sintattiche uno stile enunciativo, che per propria natura sfugge ad inquadrature eccessivamente rigide. Piuttosto, l’elasticità della categoria definitoria riflette e spiega l’elasticità della categoria retorica definita, rendendo conto della natura di confine dell'argomento di autorità.
Definire l'argomento di autorità come struttura marcatamente sui-referenziale significa inquadrarlo come uso performativo del verbo “asserire” (o, più in generale, di quei verba dicendi il cui scopo illocutivo consiste nel fare asserzioni). Qualificando la propria enunciazione come asserzione, l'enunciato si mostra, ma al tempo stesso si costituisce, come asserto. La parola si impone come parola autorevolmente detta, postulando così la propria legittimità pragmatica. Poiché però le condizioni di felicità che regolano la corretta esecuzione dell’atto linguistico di asserire prevedono, fra l’altro, che colui che asserisce qualcosa disponga di tutte le informazioni necessarie per essere ragionevolmente certo della verità di ciò che dice, facendosi quindi garante di essa, sancire performativamente il valore illocutivo di asserzione di un enunciato significa veicolare contestualmente informazioni circa la sua presunta verità.
Attraverso il rimando sui-referenziale il linguaggio getta uno sguardo su se stesso, assicurando la propria buona fede: qualificandosi come dire autorevole, e quindi anche pienamente legittimato, l'enunciato ammette a titolo di implicito pragmatico la propria verità, che diventa così un’appendice indiscutibile, un corollario immediatamente derivabile dell’atto del dire. Nel suo valore performativo quindi, quale si realizza attraverso l'argomento di autorità, il verbo “affermare” non assume solo un’immediata risonanza pragmatica (in quanto fa ciò che dice, ossia fa un affermazione mentre determina il valore illocutivo assertivo del proprio dire) ma si configura come vero e proprio atto poietico, i cui effetti eccedono l’ambito linguistico, investendo piuttosto il rapporto fra parole e mondo. L'argomento di autorità crea la realtà, la definisce ordinandola nelle categorie del vero e del falso, del giusto o dell’ingiusto ecc.
Come l’autolegittimazione sui-referenziale del dire postula e costruisce la verità del detto (una verità forte in quanto determinata attraverso un meccanismo puramente pragmatico e che per ciò stesso elude ogni verifica fattuale), allo stesso modo però, la verità indiscutibile del detto costruisce la legittimazione del dire e ne determina quindi l’autorità. L'argomento di autorità, quindi, si colloca su un incrocio semantico-pragmatico, istituendo una circolarità fra l’autorità di un’asserzione (che postula la sua verità) e la verità (che ne sancisce l’autorità). L’autoreferenzialità si traduce in una equazione fra autorevolezza del dire e verità del detto, in un bicondizionale che fortifica la dicibilità dell’asserto ad ogni passaggio: “Poiché affermo che A, A è vero”; “Poiché A è vero, affermo che A”.

UNA PROPOSTA TASSONOMICA
La riconosciuta e strutturale necessità di mantenere dei margini di elasticità nella definizione dell'argomento di autorità non implica che si debba per questo rinunciare anche ad inseguirne le forme fin dove esse siano in qualche modo individuabili e distinguibili. Se è vero, infatti, che ogni dire costituisce in maggior o minor misura un atto di autorità e che tutto ciò che viene considerato vero è tale anche in quanto autorevolmente detto, non tutto ciò che viene detto manifesta l’immediata pretesa di essere considerato vero. Affinché si possa parlare di argomento di autorità in senso proprio è dunque necessario che il rimando sui-referenziale ad un contesto autorevole sia chiaramente codificato a qualche livello, emergendo così come indiscusso contenuto informativo dell'enunciato e quindi come argomento esplicitabile.
Bisogna quindi riunire le diverse forme dell'argomento di autorità, inserendole all’interno di una matrice classificatoria che le ordini in funzione dei parametri maggiormente caratterizzanti. Si può ipotizzare una struttura tassonomica che distingua innanzitutto tipi di auctoritates fondamentali e, in secondo luogo, i livelli di codifica della marca sui-referenziale e quindi anche il diverso grado di esplicitezza dell'argomento di autorità. Sarà così possibile accordare le opposte esigenze di rendere conto dell’ampiezza della categoria retorica, da un lato, e di riconoscerne le occorrenze pur nella eterogeneità delle sue forme possibili, dall’altro. In questo senso l'argomento di autorità verrà considerato non come una singola struttura argomentativa, quanto piuttosto come categoria retorica sovraordinata, all’interno della quale si organizzano e si riuniscono figure diverse, la cui comune caratteristica e di mostrare l’autorità del dire che pretende di porsi a garanzia di se stesso.

L’auctoritas che sostiene un asserto non esaurisce la propria funzione all’interno di un discorso nel valore argomentativo che le è riconosciuto. Come si è visto, mentre sostiene una tesi, l'argomento di autorità colloca un enunciato nel suo specifico contesto culturale e disciplinare con i suoi assiomi particolari e le sue leggi. In questo senso costituisce una spia della matrice razionale di un testo, che viene proiettata sulla superficie dall’uso argomentativo che di essa si fa. La stretta connessione esistente fra l’auctoritas dominante e la struttura razionale su cui un testo è costruito è rivelata a posteriori dal fatto che il mancato rispetto di un’autorità da parte di chi non disponga in proprio di un prestigio sufficiente a legittimare una contestazione viene sanzionato attraverso il ridicolo. In questo modo non si sottolinea solo l’errore ma, più radicalmente, è sancita l’anomalia dell’opposizione impertinente, che viene collocata fuori dell’ambito del ragionevole ed estromessa dalla comunità raziocinante. Prima ancora di essere vera o falsa essa sarà “nel falso”.
Dire che l'argomento di autorità contestualizza un enunciato non significa quindi che ne indica le precise coordinate cronologiche e topografiche, quanto piuttosto che ne fa emergere il principio produttivo interno. Esso mostra l’uditorio ideale di un’argomentazione, intendendo con ciò non l’uditorio empirico cui essa è rivolta o destinata ma quello teorico, considerato come “uditorio universale”, in quanto si ritiene che il consenso di coloro che lo compongono costituisca la prova definitiva della validità dell’impianto dimostrativo. L'argomento di autorità, dunque, contestualizza un enunciato in quanto, attraverso l’esplicitazione dell’auctoritas, ne indica alcune condizioni di felicità testualmente determinate, che esso per primo contribuisce a istituire. Per questo classificare le forme della figura un funzione del tipo di auctoritas invocata risulta essere una strategia teorica pertinente e fortemente caratterizzante.
È possibile distinguere tre categorie fondamentali di auctoritates. In primo luogo si avranno individui specifici e chiaramente identificati (o gruppi di individui), che per le loro proprie qualità godono di un prestigio particolare. Segue la doxa, l’opinione comune, che rappresenta in realtà l’autorità più alta in virtù del ruolo di garante epistemologico che la tradizione filosofica risalente ad Aristotele ha voluto assegnarle. Poiché si basa sull’intima ragionevolezza di cui sono accreditate le opinioni più largamente diffuse, essa dipende da criteri quantitativi che si sovrappongono a ogni considerazione di ordine qualitativo; l’autorità del numero prevale su quella fondata su eventuali competenze specifiche. La portata argomentativa della doxa non si esaurisce semplicemente nella citazione delle opinioni esplicitamente condivise dalla maggioranza ma poggia su tutte quei convincimenti che nel complesso definiscono il contesto culturale, il “mutual knowledge” all’interno del quale un enunciato si inserisce. Ogni riferimento a pregiudizi comuni, a ipotesi scientifiche dominanti, a sistemi di valore ammessi, a supposizioni diffuse sullo stato degli interlocutori, rappresenta un’allusione ad un clima opinionale prevalente, che viene così sfruttato ai fini dell’argomentazione. A volte può risultare maggiormente efficace collegare un enunciato all’interno di contesti culturali ampi ma al tempo stesso specializzati, rinviando così per esempio all’autorità riconosciuta a particolari ambiti disciplinari o a sistemi religiosi o ideologici.
Infine, l'argomento di autorità può essere costruito sull’autorità che l’oratore attribuisce alle sue proprie parole, assumendo così la forma della petitio principii. Rispetto alle altre forme dell'argomento di autorità le petizioni di principio si distinguono in quanto esibiscono l’implicazione inversa dell’equazione autoreferenziale fra la forza pragmatica di un’asserzione e il valore di verità dell’asserto. Il loro schema superficiale non coincide dunque con la formula “x è vero perché A dice x” ma con “A dice x perché x è vero”, dove A, in questo caso, indica il locutore stesso. Al fondo però, rimane la struttura circolare che permette di definire la petitio principii come caso specifico dell'argomento di autorità, in quanto, cioè, costruisce la credibilità dell’oratore sulla verità indimostrata delle sue tesi e, viceversa, fonda la dimostrazione della verità delle sue parole solo sulla sua autorità personale.

L’influenza che l’auctoritas fondamentale di un testo esercita sulla sua complessiva struttura, e quindi anche l’importanza che la distinzione fra i diversi tipi di auctoritates può assumere, appare chiara in un caso paradigmatico, ovvero da uno dei primi tentativi di distinguere generi testuali diversi. L’originaria differenza fra dialettica e retorica e la successiva storia dei loro reciproci rapporti possono essere rilette attraverso la diversa composizione del principale contesto autorevole di riferimento progressivamente assunto dalle due discipline. Già con Platone, infatti, il metodo dialettico viene contrapposto al discorso retorico in quanto costituito dal dialogo fra due interlocutori, il cui accordo basta a garantire la verità delle conclusioni raggiunte, mentre, in ambito retorico, l’oratore cerca il consenso della folla. Originariamente, dunque, la dialettica si basa sull’autorità del singolo, la retorica dipende da quella del numero. Nel ridurre le distanze fra le due discipline, Aristotele fonda la sua dialettica non sull’accordo del gruppo ristretto e qualificato dei partecipanti al dialogo ma su quello di una comunità più ampia. La doxa aristotelica (l’insieme cioè delle premesse verosimili da cui è possibile trarre sillogismi) si definisce attraverso l’intersezione delle opinioni condivise dalla maggioranza con quelle affermate dai sapienti. La struttura ibrida che risulta dalla sovrapposizione dell’autorità del numero a quella delle qualità personali sancisce l’avvicinamento, se non addirittura il collegamento, della dialettica alla retorica, che rimane fedele all’auctoritas dell’opinione comune. Ogni altra differenza fa dialettica e retorica (il taglio globalmente più dimesso di quest’ultima, il maggior perso concesso all’uditorio e alle sue passioni, l’opposizione fra brachilogia e macrologia) può essere messa in relazione con il diverso tipo di autorità che le sostengono. Anche la successiva storia della retorica è sicuramente influenzata dal variare dei connotati dell’auctoritas che la fonda. Una delle prime cause della sua decadenza certo dipende dalla progressiva squalifica della base sociale che ne componeva il pubblico, che con sempre maggiore difficoltà riesce a rappresentare l’uditorio ideale, risultando così incapace di svolgere il ruolo di auctoritas superiore.
L’auctoritas fondamentale su cui è costruito un testo non ne definisce solo la matrice razionale ma costituisce anche un criterio discriminante sul quale è possibile distinguere fra categorie testuali diverse. Una classificazione di questo tipo, del resto, ripropone in termini aggiornati l’uso già antico di distinguere i generi del discorso (deliberativo, giudiziario, epidittico) anche in funzione degli uditori cui erano rivolti. Poiché però l’auctoritas di un testo non coincide con l’uditorio empirico ma ne costituisce un principio interno, risulta perciò essere un criterio tanto più indicativo della sua complessiva costruzione retorica. Come il prevalere dell’autorità di un singolo interlocutore o di una vasta platea determinano uno stile tendenzialmente dialettico o piuttosto di impronta retorica, allo steso modo una continua petitio principii, costituisce uno stile strutturalmente monologico in cui l’autorità del locutore si sovrappone quella di ogni altra voce possibile.
Le diverse forme dell'argomento di autorità rappresentano quindi indici importanti, rivelatori di una più ampia strategia argomentativa. Bisogna però evitare semplificazioni eccessive: una continua petitio principii che riproponga solo ciò che è già largamente condiviso non rivela l’autorità del locutore ma solo quella del suo pubblico e di tutto un clima opinionale circostante. Viceversa, la vox populi può essere piegata alle esigenze argomentative dell’oratore. L’opinione comune costituisce allora un falso supporto dietro al quale si maschera l’autorità del locutore che tenta di imporre le proprie verità. Per evitare di sovrapporre meccanicamente l’auctoritas che effettivamente sostiene un impianto dimostrativo a quella che può occasionalmente costituire un argomento di autorità, bisogna verificare se il rinvio alla parola d’autore (che altro non significa che “parola autorevole”) non abbia i caratteri dell’uso – e quindi dell’appropriazione - invece che del semplice riferimento. In questo caso l'argomento d’autorità si risolve in una petitio principii dissimulata, che sfrutta il decentramento enunciativo per nascondere l’atteggiamento assiomatico del locutore.

Dopo aver distinto le auctoritates fondamentali è necessario classificare le forme dell'argomento di autorità anche in funzione del tipo di codifica della marca sui-referenziale, seguendone così il progressivo spostamento verso zone sempre più implicite dell'enunciato. Si avranno così innanzitutto le citazioni esplicite riducibili al modello A ha detto che x, attraverso le quali l’asserto viene espressamente collegato al contesto autorevole che lo sostiene. Per la loro natura esplicita, le forme citazionali rimandano necessariamente ad auctoritates specifiche e chiaramente individuabili. É anche possibile citare apertamente la doxa, segnalando le precise modalità con cui essa ha manifestato i propri convincimenti (indicando quindi eventuali votazioni o sondaggi e specificandone le coordinate); in questo caso però, la natura dell’autorità, che non coincide con individui concreti ma che si basa su un’astrazione numerica, induce a preferire forme meno esplicite. La vox populi sarà evocata preferibilmente attraverso formule referenzialmente vaghe, quali “Molti sanno che”, “I benpensanti affermano che” o “È opinione comune che”, riconducibili alla forma Y ha detto che x, dove la variabile Y sottolinea che l’auctoritas rimane indefinita. Ad un ulteriore livello di implicitezza, è possibile mostrare l’appoggio di un consenso generalizzato introducendo un asserto con sintagmi quali “Si sa che”, “Pare che” o “A quanto dicono”. Rientrano in quest’ambito tutti gli esempi attraverso cui Ducrot illustra la nozione di “autorità polifonica”, che possono essere schematicamente riassunti con (Y ha detto che)x, dove Y ha detto che x viene posto fra parentesi per indicare che il rimando citazionale viene solamente alluso ed è ricostruibile attraverso le regole grammaticali che non permettono di identificare il soggetto dell'enunciato con il locutore.
I proverbi rappresentano forme ulteriormente implicite dell'argomento di autorità. Il rinvio ad un contesto autorevole non viene lessicalizzato né è deducibile attraverso la struttura morfo-sintattica dell'enunciato; tuttavia la formula ricorrente permette di riconoscerli direttamente come sedimento senso comune. Il collegamento dell'asserto all’autorità superiore della doxa dipende quindi dalla competenza enciclopedica condivisa dai partecipanti al dibattito. I proverbi costituiscono di per sé delle citazioni e costituiscono quindi degli argomenti di autorità riassumibili attraverso la forma “x”.
Nelle petitio principii, quando cioè l'argomento di autorità si regge sul prestigio dell’oratore stesso, l’autoreferenzialità scompare come marca semantica codificata all’interno dell'enunciato, riapparendo a livello della struttura logica dell’argomentazione. Poiché l’autorevole enunciazione che garantisce la verità dell'enunciato e quella stessa che attualizza l'enunciato in un atto di parola, la sui-référence si costituisce all’interno del contenuto proposizionale, assumendo la forma tautologica “x perché x”. Considerare la petitio principii un caso particolare dell'argomento di autorità significa evidenziarne la circolarità costitutiva, risolvendo così le incertezze che ne hanno accompagnato la definizione. In modo non diverso dell'argomento di autorità, infatti, anche la petitio principii tende a sfumare nella semplice assertività appena si riconosca che ogni discorso procede da premesse indimostrate, sorrette solo dall’autorità dell’oratore e verificate a posteriori. Affinché vi sia petizione di principio dunque, occorre che le premesse prefigurino le conclusioni e, al contrario, le conclusioni riaffermino le premesse, presentando così come verità dimostrata ciò che è solo un postulato iniziale. Volendo continuare a definire l'argomento di autorità come citazione (al di là delle critiche avanzate precedentemente) si può affermare che attraverso la petitio principii il locutore cita se stesso, ripropone le sua parole, dimostrando ciò che è originariamente sostenuto solo dall’autorità del suo stesso dire.
La variante implicita della petitio principii è costituita dalla presupposizioni lessicali, attraverso le quali l’oratore definisce lo sfondo iniziale di un’argomentazione, imponendo la parzialità del proprio punto di vista. Queste forme rappresentano l'argomento di autorità più forte in quanto mentre emergono attraverso l’atto stesso del dire che autoritariamente veicola i propri impliciti, sono paradossalmente protette dal silenzio e allontanate dal centro del dibattito.

Le diverse forme dell'argomento di autorità riconosciute sono schematicamente ordinabili in un prospetto riassuntivo strutturato su due parametri fondamentali: la natura dell’auctoritas invocata e il tipo di codifica dell’indice
sui-referenziale.

POSTILLE
Attraverso l’analisi dell'argomento di autorità emerge una figura di auctor ambivalente. Come già si è detto, infatti, esso rappresenta la matrice razionale e il principio produttivo di un testo. L’esibizione sui-referenziale dell’auctor equivarrebbe allora a mostrare i criteri di legittimità interna di un argomento, ma non a sancirne direttamente la verità. Anzi, l’evidenziazione dell’auctor dovrebbe costituire un invito, tanto più stringente quanto più esso sia effettivamente autorevole, a riconoscerne le particolari procedure razionali, esaltandone la parzialità. In questo senso rappresenta un elemento di resistenza alla tentazione di considerare le sue parole, in quanto sue, immediatamente vere, ostativo quindi anche all’appropriazione e all’uso di queste con intento argomentativo.
L'argomento di autorità dunque, opera e si basa su di uno spostamento del ruolo dell’auctor all’interno del discorso, trasformandolo da indice metodologico a etichetta che ratifica la verità inoppugnabile dell’asserto. Un’indicazione riguardo al metodo fornisce sicuramente informazioni sulla veridicità delle tesi che su di esso sono state costruite ma, allo stesso tempo, invita ad individuarne la complessità sottostante e i precedenti percorsi dimostrativi, inducendo quindi ad uno sguardo anche retrospettivo. In questo senso l’auctor chiede ascolto e considerazione ma non manifesta un’immediata pretesa alla verità, obbliga al rispetto, non alla deferenza. Le sue parole possono essere studiate, interpretate, menzionate, possono essere assunte come base di partenza ragionevolmente garantita per successivi approfondimenti, ma non strumentalizzate per sostenere delle tesi, e in questo egli manifesta la sua autorevolezza. Al contrario, un’auctoritas garante di verità indiscutibili, costruisce assiomi dai quali è solo possibile dedurre ulteriori verità ma che non possono certo essere indagati nei presupposti di fondo.
Solo riaffermando il valore dell’auctor come principio produttivo del testo, come matrice etica e razionale che se ne assume la responsabilità in mancanza di difficili ratifiche veritative, e contrapponendo questa figura a quella che sostiene l'argomento di autorità è possibile impostare una critica della figura che sia efficace e pertinente. Da Locke in poi, infatti, l'argomento di autorità ha subito attacchi violenti – fra cui spicca per rudezza ed astiosità quello di Schopenhauer – che intendevano metterne in luce innanzitutto la struttura logicamente fallace, inficiandone quindi ogni valore argomentativo. La contestazione del principio stesso dell’autorità come fondamento discorsivo nasconde in realtà il tentativo di imporre auctoritates diverse, sostituendo, per esempio, il primato della razionalità a quello della tradizione o imponendo la genialità del singolo all’autorità dell’opinione comune, e ripropone così ad un diverso livello la struttura argomentativa che vuole condannare.
La critica l'argomento di autorità deve necessariamente procedere dalla verifica del ruolo assunto dall’auctor all’interno del testo, opponendo la strumentalizzazione che di esso si può fare come criterio di chiusura assiomatica e monologica alla sua strutturale potenzialità dialogica. La citazione di un’autorità può significare allora la circostanziata e consapevole riproposizione di un giudizio, esibito in tutta la considerazione che il contesto culturale dato gli riconosce. Riferire un asserto al suo ambito autorevole non equivale necessariamente a imporne la verità ma può allo stesso modo costituire un invito al dialogo per un interlocutore altrettanto autorevole, capace di trarre dalle maggiori indicazioni offerte sul suo contesto originario spunti per ulteriori approfondimenti e salutari verifiche.
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NOTE AL TESTO

 

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Cfr. Cicerone, Inv. 1,101: “Primus locus sumitur ab auctoritate, cum commemoramus, quantae curae res ea fuerit eis, quorum auctoritas gravissima debeat esse.”
Cfr. Quintiliano, Inst. V,11,36: “Adhibetur in causam et auctoritas. Haec secuti Graecos, a quibus kriseis dicuntur, iudicia aut iudicationes vocant, non de quibus ex causa dicta sententia est (nam ea quidem in exemplorum locum cedunt), sed si quid ita visum gentibus, populis, sapientibus viris, claris civibus, inlustribus poetis referri potest.”
Cfr. Compagnon (1979)
Cfr. Quintiliano, Inst. 1,8,10-12: “Denique credamus summis oratoribus, qui veterum poemata vel ad fidem causam vel ad ornamentum eloquaentiae adsumunt. Nam paecipue quidem apud Ciceronem […] videmus […] et aliorum inseri versus summae non eruditionis modo gratia, sed etiam iucunditatis, cum poeticis voluptatibus aures a forensi asperitate respirant. Quibus accedit non mediocris utilitas, cum sententiis eorum velut quibusdam testimoniis quae proposuere confirment.”
Cfr. Jacomuzzi (1984)
Cfr. Ducrot (1981)
Cfr. Ducrot (1981: 13) “Un’estensione più radicale ancora della nozione di autorità polifonica consisterebbe ora – mi limito a segnalare questa possibilità – nell’introdurvi tutte le concatenazioni conclusive.”
Cfr. Ducrot (1981: 24)
Attraverso una citazione non viene riferito il semplice enunciato, ma viene mostrata l’enunciazione, l’atto di parola, il dictum di un enunciato;
Nell'enunciato “A afferma che p”, assunto come modello schematico di una citazione, “afferma” vale come esplicitazione della forza illocutiva di p, mentre A rappresenta il contesto enunciativo cui p viene collegato e che svolge il ruolo di auctoritas garante.
Nella prima formulazione del concetto, la sui-référence viene collegata da Emile Benveniste ad una classe definita di forme grammaticali. Sebbene alluda alla più generale capacità del linguaggio di assumere valore esecutivo, la sui-référence rimane una proprietà specificamente attribuibile ad un numero limitato e decidibile di costrutti morfo-sintattici. Al contrario, nell’interpretazione ducrotiana la sui-référence diventa la matrice fondamentale di ogni dinamica linguistica, trasformandosi così da categoria specifica a premessa generale, ipotesi teorica assunta per spiegare il funzionamento del linguaggio. Per Ducrot, ogni enunciato mostra la propria enunciazione, comprende una certa qualificazione del dire; ogni parola detta parla più o meno esplicitamente di se stessa e solo attraverso questo movimento autoriflessivo acquista determinatezza semantica.
Per la nozione di uditorio universale, vedi Perelman (1989: 33-37)
Per la nozione di “mutual knowledge”, cfr. Sperber, Wilson (1976).
Cfr. Platone, Protagora, XXII, 336b: “Così, se desideri ascoltare me e Protagora, pregalo che anche ora risponda come prima, quando brevemente rispondeva a quello che gli domandavo: se no che razza di dialoghi saranno i nostri? Io pensavo infatti che una cosa fosse trovarsi insieme dialogando, altro parlare alla folla.” Il diverso stile argomentativo fra i retori e dialettici emerge anche da un dialogo con Polo (cfr. Gorgia, 471,e): “In tribunale se uno produce molti testimoni degni di fede, e invece l’avversario ha un solo teste o neppure quello, il primo è convinto di aver smentito l’altro. Ma rispetto alla verità questa prova non ha nessun valore […] Cito proprio te come testimone, e se non riesco a farti parlare in mio favore, ì, sarà come se non avessi ottenuto alcun risultato nella nostra discussione di oggi […] Vedi, c’è quel tipo di dimostrazione che piace a te e a molti altri, ma ce n’è anche un altro tipo che piace a me.”
La composizione semantica del lemma latino “auctor” coincide perfettamente con quella del suo derivato “auctoritas”. Già un auctor è persona autorevole, legata alla pratica del potere e intitolata a compiti specifici, fra cui anche quello di ratificare degli atti, facendosi garante della loro correttezza. Autorità è dunque sinonimo di autorialità.
Nel distinguere fra uso e riferimento riprendo l’opposizione proposta da Umberto Eco fra uso e interpretazione di un testo, (cfr. Eco: 1990: 22-25 ) che può utilmente essere tradotta dall’ambito narrativo entro il quale è stata originariamente formulata a quello argomentativo. Secondo Eco si ha interpretazione di un testo quando ne viene restituita l’intentio operis, quando cioè il lettore ricostruisce la struttura secondo strategia originalmente prevista dall’Autore Modello; un testo viene usato quando sia piegato a letture non previste e non concordanti con le istruzioni che esso stesso offre per la propria decodifica, quando cioè prevalga l’intentio lectoris.
Perelman (1989: 117-121) ha proposto una definizione innovativa della petitio principii considerandola non un errore logico (come comunemente è intesa) ma un errore argomentativo. Si creerebbe dunque una petitio principii quando l’oratore da per scontato ciò che il suo pubblico non condivide. L’impostazione perelmaniana va rifiutata: la petizione di principio effettivamente consiste in un cortocircuito logico e la mancata adesione del pubblico all’asserto postulato rappresenta solo una violazione delle condizioni di felicità affinché la petitio principii sia argomentativamente efficace. Di fatto le petitio principii più forti e le più insidiose, in quanto tendono ad occultarsi, sono quelle in cui l’uditorio già condivida i contenuti affermati.
Cfr. Locke, Essay, IV, XVII, 19-22
Cfr. Schopenhauer (1991: 52-57)
Secondo Pareto (1916: 502), l'argomento di autorità costituisce un tentativo di dare “vernice logica” ad un’argomentazione in realtà illogica.

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in "Lingua e stile", 2000 n. 2, pp, 229-247.