raffaele solaini
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Catalogata nelle Confutazioni Sofistiche fra le fallacie éxo tês léxeos, fra i paralogismi, cioè, che non dipendono dalla forma dell’espressione ma dalla struttura dell’argomentazione, la petizione di principio viene definita e sanzionata in quanto comporta “l’assunzione della proposizione che dall’inizio si era stabilito di provare” (tò en archè aiteîsthai). Di conseguenza, entro un contesto dialettico nel quale viene riconosciuto valore veridittivo all’accordo fra gli interlocutori, essa – aggiunge Aristotele – può genericamente “prendere tanti aspetti, quanti sono i modi in cui viene preteso l’assenso” su una questione in realtà ancora dibattuta (Soph. El. 167a 36-40).
Sullo stesso sofisma Aristotele torna ancora nei Topici (VIII, 13) e negli Analitici Primi (II, 16), offrendone descrizioni maggiormente elaborate, ma anche divergenti in funzione del variare dei contesti teorici e della diversa maturazione cui era nel frattempo giunta la teoria del sillogismo. Dal complesso dell’Organon emerge quindi una rappresentazione non immediatamente coerente della fallacia, che ricorre tuttavia significativamente su ciascuno dei livelli attraverso i quali si ordina la speculazione aristotelica circa la corretta articolazione logica e semantica del discorso. La denuncia della petizione di principio, un’inferenza formalmente valida ma incapace di dimostrare, diventa per questo indice di una preoccupazione epistemologica costante, la cui esatta portata può essere compresa solo considerando anche i molteplici passi pertinenti degli Analitici Secondi, nei quali i criteri che garantiscono valore dimostrativo al sillogismo vengono determinati anche attraverso la condanna delle argomentazioni circolari (An. Post. I, 3).
L’intento di questo studio è quello di ricostruire una linea di lettura trasversale alle diverse note aristoteliche intorno alla petizione di principio, cercando con ciò una collocazione adeguata e una possibile spiegazione per un sofisma difficilmente definibile, sul quale si è lungamente e spesso vanamente affaticata la riflessione logica. In particolare, deve essere tratto il maggior partito possibile dal rimando incrociato fra i capitoli dedicati alla petizione di principio nei Topici, da un lato, e negli Analitici Primi, dall’altro (Top. 162b 31-33; An. Pr. 65a 36-39); rinvii intertestuali parentetici e, nel caso dei Topici, forse anche frutto di revisioni successive del testo, ma comunque, e a maggior ragione, indici di come lo stesso Aristotele intendesse correlare a tale proposito l’approccio analitico e quello dialettico, senza privilegiarne uno a discapito dell’altro. Il legame fra questi due piani, solo attraverso il quale è possibile a nostro avviso guadagnare una corretta comprensione della fallacia, riflette in seconda istanza la natura dei rapporti fra le opere dell’Organon considerate. L’analisi della petizione di principio in Aristotele costituisce per questo un ulteriore elemento da integrare entro il più ampio studio circa la relazione non solo genetica fra la dialettica e l’analitica, e quindi anche fra la pratica della confutazione e quella della dimostrazione.
In questo senso la prospettiva qui sostenuta si oppone a quella di coloro che, anche sulla base della propensione a non ammettere contaminazioni fra il regime gnoseologico del vero e quello del verosimile, hanno affermato che la teoria aristotelica delle fallacie, in generale, e la petizione di principio, in particolare, dovessero essere considerate alternativamente, o solo dal punto di vista analitico, o solo da quello dialettico. Voce rappresentativa della prima tendenza è stata quella di Joseph Bocheński (1956: tr. it., 78), secondo il quale Aristotele avrebbe formulato due diverse e fra loro irriducibili teorie delle fallacie: la prima nelle Confutazioni Sofistiche, espressione della fase arcaica della logica aristotelica e informata da interessi di ordine prevalentemente pragmatico; la seconda, tanto più concisa quanto meglio definita dal punto di vista formale, negli Analitici Primi (II, 16-21).
Per quanto concerne la petizione di principio, Richard Robinson (1960, 1971) ha sostenuto, al contrario, che il sofisma possa essere definito solo entro il contesto dialettico. Esso rappresenterebbe allora una violazione delle regole codificate già nel dialogo di tradizione accademica, all’interno del quale era uso dichiarare fin dall’inizio la tesi controversa (próblema) che si intendeva sostenere, procedendo poi alla ricerca di premesse diverse e lontane, e per questo ammissibili dall’interlocutore, sulla cui base procedere poi alla dimostrazione. Secondo il punto di vista del Robinson, la petizione di principio costituirebbe quindi solo un errore pragmatico, la ricerca di un consenso preventivo laddove esso non può essere riconosciuto, ma anche un argomento logicamente inoppugnabile e per questo, anzi, definivo: “I must say I do suspect you of this absurdity. I do suspect you of rejecting my arguments just because my premise necessitates my conclusion. At any rate, that is in my opinion, what most people are doing when they condemn an argument as begging the question.” (Robinson, 1971: 113)
Simili letture del testo aristotelico sembrano deboli, innanzitutto perché fondate su una contrapposizione troppo netta, e per questo progressivamente superata in letteratura, fra dialettica ed analitica, intese, l’una, come gioco dialogico svuotato di rilievo filosofico e, l’altra, come prima formulazione di una logica interamente formale. La petizione di principio si colloca piuttosto sull’intersezione fra Topici e Analitici, investendo ciò che essi condividono e che li distingue entrambi dalla sofistica: l’intenzione filosofica, cioè, di assicurare che il linguaggio possa svolgere il proprio compito conoscitivo, determinando le regole, diverse per ciascun campo, che consentano al discorso di articolare il senso in termini appropriati e aderenti al reale. Solo così, solo evitando di ridursi secondo l’abitudine dei sofisti a diatribe puramente verbalistiche costruite intorno a formule circolari e tautologiche, l’argomentazione può risultare poi dimostrativa e convincente.

LA PETIZIONE DI PRINCIPIO IN ARISTOTELE. FRA DIALETTICA E ANALITICA
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I LUOGHI DELLA PETIZIONE DI PRINCIPIO NELL'ORGANON
LA CONVERTIBILITA` DEL TERMINE MEDIO

Secondo quanto affermato negli Analitici Primi il modo più semplice per commettere una petizione di principio consiste nell’affermare direttamente una tesi, ponendola come se fosse in sé evidente. Poiché però fra gli oggetti alcuni sono noti tramite se stessi, mentre altri lo sono solo attraverso nozioni anteriori, qualora si cerchi di conoscere per sé ciò che deve essere reso manifesto tramite altro da sé, sarà stato postulato ciò che dall’inizio si era inteso dimostrare (An. Pr. 64b 34-38).
Questa prima definizione ha il merito di collocare la petizione di principio entro le coordinate fondamentali dell’epistemologia aristotelica, riconducendola all’opposizione delineata negli Analitici Secondi (II, 9) fra ciò che rinvia ad una causa ulteriore e ciò che è causa di sé, ed è pertanto considerato un principio. Tuttavia essa non appare del tutto soddisfacente: l’asserzione diretta di una tesi, proprio perché chiaramente ingiustificata, e per questo accettabile solo in occasioni privilegiate, difficilmente può essere considerata un argomento, e quindi un argomento apparente. Segue allora una seconda illustrazione di come la fallacia possa realizzarsi, al fondo equivalente alla precedente, ma maggiormente elaborata:

“Il caso si presenta, ad esempio, quando A venga provato mediante B,
B sia provato mediante C, e C d’altro canto sia naturalmente costituito per
venir provato mediante A. In realtà quando si compiono tali deduzioni, è
necessario che A, come tale, venga provato mediante se stesso.” (An. Pr. 65a 1-5)
Nella sequenza delineata da Aristotele, così trascrivibile in un linguaggio formale,
“(A → C) & (C → B) & (B → A) → (A → A)”,

A compare sia come prima premessa, sia come conclusione ultima, in modo tale che risulta essere provato da sé. La seconda formulazione della petizione di principio si distingue però in quanto presenta anche dei passaggi inferenziali intermedi, interpretabili nel quadro della sillogistica. Da una coppia di premesse date (ad esempio da C e B), è possibile dedurre la conclusione A, la quale è a sua volta “naturalmente costituita” per provare C. Non solo, dunque, “A perché A” (“A → A”), ma anche “A perché C” (“C → A”), e “C perché A” (“A → C”).
La petizione di principio consiste dunque anche nella dimostrazione circolare della conclusione e di una delle premesse, ed è infatti sulla base di questo presupposto che prosegue l’analisi della fallacia. Dato il sillogismo “A appartiene a B”, “B appartiene a C”, quindi “A appartiene a C” (Aristotele torna ora ad utilizzare le lettere schematiche come variabili su termini), affinché sia possibile dimostrare reciprocamente la conclusione e una delle due premesse, è necessario che l’altra premessa sia formata da termini convertibili. Da “A appartiene a C” e “B appartiene ad A” si deduce “B appartiene a C”; oppure, da “A appartiene a C” e da “C appartiene a B” si deduce “A appartiene a B”. Quando si scelga una premessa altrettanto dubbia quanto la conclusione, si produce una mancata dimostrazione, in quanto questa dovrebbe procedere da ciò che è più noto verso ciò che lo è di meno, senza però con ciò configurare una petizione di principio. La fallacia si determina aggiungendo l’ulteriore condizione che l’altra premessa sia convertibile, in modo tale da confermare reciprocamente la conclusione e la premessa dubbia. Si possono quindi avere due forme di petizione di principio, a seconda di quale delle due premesse sia dimostrabile assumendo la conclusione, e quindi di quale estremo sia convertibile con il medio. In un caso “due medesime determinazioni appartengono allo stesso termine”, nell’altro “la stessa determinazione appartiene a due medesimi termini” (An. Pr. 65a 28-30).
Qualora il ragionamento proceda attraverso tre termini come prescritto dalle regole sillogistiche e assuma quindi le sembianze di un argomento, la petizione di principio si riduce dunque alla scelta di un medio [spazio] convertibile con uno degli estremi, tale da consentire in caso di necessità la dimostrazione reciproca della conclusione e di una delle premesse. I principi, quelli che non possono e non devono essere dimostrati sono definiti da Aristotele amésoi, “senza medio”. La petizione di principio dipende allo stesso modo dalla soppressione del termine medio in quanto elemento distinto e irriducibile agli altri entro il sillogismo, e quindi all’asserzione diretta di una tesi, quasi si trattasse di un principio, celata sotto l’apparenza di un’argomentazione circolare.
Dal disconoscimento del valore dimostrativo delle argomentazioni circolari deriva poi l’impossibilità di provare i principi, in quanto ciò comporterebbe alternativamente, o presupporre una serie infinita di termini medi anteriori, generando così un regresso distruttivo della possibilità stessa della dimostrazione, oppure ammettere che premesse che si presumono dimostrabili non sono state dimostrate (An. Post. I, 3).

FRA DIMOSTRAZIONE E CONFUTAZIONE

Il rifiuto di una prospettiva ontologica idealista permette ad Aristotele di tornare sul paradosso platonico del Menone, citato significativamente nel primo capitolo degli Analitici Secondi, risolvendolo attraverso gli strumenti offerti dalla teoria della dimostrazione, piuttosto che sulla base del mito della reminiscenza. Posta la questione di come sia possibile imparare alcunché, visto che non si apprende ciò che già si sa, mentre, qualora non si conosca qualcosa, non si sa neppure cosa si stia cercando (Men. 80e), Aristotele respinge la risposta platonica, in realtà un’ammissione dello scacco, secondo la quale l’Anima da sempre possederebbe verità date nella loro completa ed ideale evidenza, che si tratterebbe solo di ricordare. Per Aristotele, invece, prima che una dimostrazione sia stata conclusa occorre piuttosto dire che l’individuo in un certo senso sa, in un certo altro non sa: esso si trova, cioè, in uno stadio intermedio, nel quale dispone di un sapere universale, conosce la premessa maggiore, ma ignora se essa riguardi il caso particolare considerato (An. Post. 71a 26-28). La dimostrazione provvede a riferire l’universale ad un’istanza individuale, deducendone le proprietà conseguenti. In questo modo essa consente di passare da un sapere in potenza ad uno in atto, garantendo un avanzamento conoscitivo lungo il corso dell’apodissi.
Definito fin dall’incipit degli Analitici Secondi in contrasto con la concezione statica della conoscenza di derivazione platonica, alla quale neanche il metodo dialettico della divisione dicotomica può secondo Aristotele restituire mobilità, il processo dimostrativo ha innanzitutto carattere dinamico. Il rigetto delle argomentazioni circolari costituisce per questo il primo tratto distintivo dell’apodissi. Al meccanismo della reminiscenza subentra la prassi dell’insegnamento (inteso non solo come il momento della trasmissione di conoscenze già acquisite, ma anche, secondo quanto affermato in Met. 981b 7-9, come la forma propria nella quale si manifesta il sapere per causas), cui corrisponde la dimensione speculare dell’apprendimento, a testimonianza del valore cognitivamente anche accrescitivo del processo dimostrativo.
Non solo Platone, ma anche i sofisti si distinguono per l’andamento tautologico del loro argomentare, così che Aristotele può attingere dal repertorio eristico gli esempi dei paralogismi in cui si cade qualora non sia stata data un’adeguata risposta al paradosso del Menone. Si assiste nel caso della petitio principii all’interferenza della polemica antiplatonica con quella antieristica, considerate “due diverse (e magari opposte) forme di una medesima acrisia.” (Sainati, 1969: 29). Poiché il presupposto filosofico del discorso sofistico è quello di negare, di eludere il riferimento all’essenza (Met. 1007a 21-23), collocandosi così sul piano del puro accidente, le dispute eristiche non possono non ridursi ad una diffusa petizione di principio, attraverso la quale si afferma solo quanto è occasionalmente vero dei casi già considerati, ma non già ciò che universalmente e in sé appartiene loro. Secondo l’esempio citato, un sofista non affermerà che ogni diade è pari, ma che lo sia ogni diade che si sappia essere una diade, ovvero che già si sia verificato essere pari. Coloro che, invece, possiedono una dimostrazione, provano le proprietà di ogni diade, di ogni numero e di ogni triangolo e “non già riguardo a tutto ciò che sanno essere triangolo, o che sanno essere numero” (An. Post. 71a 31 – 71b 5).
Affinché non si determini una petizione di principio, afferma Aristotele negli Analitici Primi, occorre che la dimostrazione contenga una premessa universale, intesa sia in senso estensionale, come proposizione vera per tutti gli oggetti che rientrano nella classe denotata dal soggetto, sia in senso intensionale, come asserzione dell’essenzialità dei predicati ad esso attribuiti, che gli appartengano, cioè, per sé (kath’autó) e non in quanto esemplare particolare. Diversamente, “o il sillogismo non si rivolgerà all’oggetto stabilito, o si postulerà la conclusione, che da principio si è fissato di dedurre” (An. Pr. 41b 6-14). Qualora si intenda provare l’appartenenza di un predicato ad un soggetto, ad esempio il fatto che la musica è un piacere nobile, occorre assumere che ogni piacere, considerato in quanto tale, sia nobile, da cui deriva che anche la musica, in quanto piacere, è nobile. Qualora invece si scelga come premessa maggiore che solo certi piaceri sono nobili, alternativamente, o non si farà riferimento fra le altre possibilità alla musica, o si considereranno solo alcuni piaceri, fra cui la musica, così che il sillogismo assume quanto da principio si era inteso dimostrare.
Il richiamo all’universalità, che comprenda e spieghi i casi particolari considerati senza ridursi a, né coincidere con essi, costituisce il carattere primo del sillogismo dimostrativo, assicurando al tempo stesso la validità dell’apodissi, la sua efficacia come strumento di apprendimento e garantendo contro le degenerazioni eristiche del discorso. Carattere comune a tutti gli argomenti sofistici è invece quello di trascurare l’universalità, e per questo si dice che essi sono validi solo per qualcuno (Soph. El. 170a 12-15), o, il che è lo stesso, che muovono da opinioni apparenti. Ove però manchi una premessa universale, l’argomentazione assume inevitabilmente un andamento circolare, così che la petizione di principio diventa la fallacia prima e maggiormente caratterizzante dello stile sofistico.
Considerato nell’ottica della dimostrazione, attraverso la quale il maestro svolge e applica conoscenze già acquisite, l’universale è primo e principio. Visto secondo la prospettiva inversa di un sapere non ancora conquistato, esso diventa scopo, meta della ricerca. Poiché però i principi non possono essere provati all’interno della scienza che li presuppone, l’arte che Aristotele dedica al loro accertamento è la dialettica, fondata sul metodo della confutazione, piuttosto che sul procedimento della dimostrazione. Raccolte le tesi contrarie sostenibili intorno ad un medesimo argomento, si traggono le conseguenze derivabili da ciascuna di esse, verificando in quali casi nascano difficoltà e contraddizioni. Quelle tesi, le cui conseguenze risultino contraddittorie, saranno per questo considerate false, mentre verrà confermata quella coerente con l’insieme delle credenze ammesso.
La dialettica, arte estranea ad ogni specializzazione disciplinare e quindi non compromessa con alcun insieme di premesse, è libera così di fissare i principi propri delle singole scienze attraverso il confronto sulle opinioni notevoli, falsificando quelle che si siano rivelate insostenibili, e accertando quelle che abbiano superato i tentativi di confutazione. Per questa ragione la petizione di principio costituisce una fallacia anche entro il contesto dialettico: nel contestare la validità delle argomentazioni circolari, Aristotele aggiunge, fra l’altro, come attraverso di esse “sarebbe facile dimostrare ogni cosa” (An. Post. 72b 35; 73a 6), indicando come uno dei loro limiti sia quello di non essere falsificabili e di essere quindi inadatte a comparire entro un contesto discorsivo orientato alla verifica e all’analisi critica.
La presenza di una premessa universale è condizione non solo della validità della dimostrazione, ma anche della possibilità della messa in questione ed eventualmente della falsificazione di una tesi, in quanto solo l’assunzione che una data proprietà sia predicabile di tutti gli individui di una classe può essere contraddetta dall’osservazione di un esemplare che non possegga tale proprietà. Diversamente il caso considerato non rientrerà entro la legge posta, la cui estensione può essere ridotta secondo necessità. A questo proposito è significativo il fatto che Aristotele costruisca l’esempio della diade, la falsa argomentazione eristica e tautologica citata in An. Post. 71a 33-35 come esito della mancata soluzione del paradosso del Menone, non già come tentativo fallimentare di dimostrazione, bensì sotto forma di risposta capziosa ad una domanda correttamente posta in termini universali. Interrogato circa il fatto se ogni diade sia pari, il sofista risponde che lo è ogni diade che egli già sappia essere tale, sottraendosi così ad ogni possibile contestazione a fronte di nuovi esemplari.
Per la medesima ragione, per il rifiuto cioè di far ruotare il discorso intorno ad assunzioni universali, a principi primi e prossimi, la petizione di principio viola i requisiti metodologici ed epistemologici soggiacenti alle opposte procedure adottate sia nei Topici, sia negli Analitici. Poiché non è falsificabile, non si pone correttamente alla ricerca dei principi; poiché non assume un principio non dimostra. I due piani sono strettamente connessi: così come la possibilità implicita di falsificazione pare essere negli Analitici Secondi parte essenziale della procedura della dimostrazione, viceversa, la dimostrazione determina la falsificazione, ovvero la deduzione di conseguenze inaccettabili perché paradossali, e quindi la confutazione, che per definizione deriva dalla deduzione di una proposizione contraddittoria rispetto a quella sostenuta dall’avversario (An. Pr. 66b 11). La petizione di principio non dimostra in quanto non è falsificabile e non confuta perché non si basa su una corretta dimostrazione. Come ogni sofisma, del resto, anch’essa costituisce un’arma a doppio taglio: da un lato mette in difficoltà un vero sapiente, il quale non sappia “risolvere” le dimostrazioni apparenti (Soph. El. 169b 27-30); dall’altro non è capace di smascherare la conoscenza apparente attraverso confutazioni reali.
È chiaro allora come la petitio principii si collochi sull’intersezione fra topica ed analitica, sanzionando al tempo stesso la loro interdipendenza così come la diversità dei rispettivi metodi. La relazione fra i due ambiti riflette la dinamica equivalente fra “ciò che è più conosciuto per noi” (gnorimóteron pròs hemâs) e “ciò che è più conosciuto in assoluto” (gnorimóteron haplôs), sulla quale Aristotele torna ripetutamente negli Analitici Secondi (71b 33 – 72a 5), ma anche nella Metafisica (1029b 3-12), nell’Etica Nicomachea (1095a 29 – b 35) e nella Fisica (184a 17). Mentre il primo termine indica la conoscenza prossima alla percezione empirica dell’individuale, ma anche l’éndoxon, il sapere autorevolmente condiviso e per questo assunto come punto di partenza dell’indagine dialettica, il secondo fa riferimento alla conoscenza dell’universale e delle cause. Ciò che è più conosciuto per noi costituisce l’unico possibile, il necessario per quanto parziale punto di avvio della ricerca, il principio inteso in senso temporale, e deve per questo essere fatto oggetto di esame critico e di discriminazione; ciò che è più conosciuto in assoluto è invece il principio inteso in senso logico, da cui muovono le dimostrazioni, ma anche una conclusione secondo l’ordine inverso dell’indagine. Significativamente, nel mostrare i limiti delle argomentazioni circolari, Aristotele fa riferimento proprio a tale opposizione concettuale, denunciando la confusione che si genererebbe ove queste fossero ammesse senza alcuna precisazione: poiché non è possibile che due nozioni siano al tempo stesso sia anteriori, sia posteriori l’una dell’altra, così come si vorrebbe al fine di dimostrarle reciprocamente, è necessario distinguere fra due diverse accezioni dell’anteriorità, una sola delle quali appropriata al sapere dimostrativo (An. Post. 72b 27-32).
In questo senso va inteso il rimando incrociato fra i Topici e gli Analitici Primi, attraverso cui si distingue la possibilità di trattare la petizione di principio secondo l’opinione, o secondo la verità. Si indicano con ciò le due prospettive speculari dalle quali può e deve essere interpretata la fallacia; ottiche che debbono essere dinamicamente correlate ma non identificate per non snaturare il senso stesso sia dell’attività dialettica, sia di quella apodittica. Mentre l’insegnamento attraverso la dimostrazione muove da principi primi e propri e non deve per questo fondarsi sulle opinioni occasionalmente ammesse dall’allievo (An. Post. 77a 33-34), a sua volta la dialettica non può dimenticare la propria vocazione essenzialmente critica, attribuendosi una positiva funzione dimostrativa. Qualora ciò accada, produce inevitabilmente un sapere eristico. Sebbene essa si serva programmaticamente del medesimo strumento inferenziale adottato dall’apodittica, vale a dire del sillogismo, le deduzioni che la dialettica trae valgono solo come approfondimento delle ipotesi assunte, verosimili ma non sempre vere, né tantomento autoevidenti, come esplorazione delle loro conseguenze allo scopo di saggiarne la tenuta.
Compito specifico della dialettica è piuttosto quello di riconoscere somiglianze e di introdurre distinzioni (Top. 105a 24-26), risolvendo così le aporie da cui muove e che sviluppa sillogisticamente. Il suo metodo è l’analisi semantica delle articolazioni discorsive, che permetta una chiarificazione concettuale utile sia alla migliore comprensione dei termini della questione, sia alla successiva formulazione di sillogismi “rivolti all’oggetto come tale, non già al nome.” (Top. 108a 21) In questo modo la dialettica indirizza verso la comprensione dell’essenza, al fondo del percorso colta intuitivamente, apparentandosi per questa via all’apodittica e opponendosi piuttosto alla sofistica, la quale si distingue per l’opposta abitudine di discutere intorno ai nomi piuttosto che alle cose. La petitio principii, dipende al contrario dal non saper distinguere ciò che è identico da ciò che è diverso (Soph. El. 169b 12-17) e risulta quindi inadeguata anche rispetto al compito che la dialettica rivendica per se stessa. Ciò che è più conosciuto per noi, la doxa, deve sottostare secondo Aristotele ad un percorso di analisi e quindi di trasformazione veritativa e non di certificazione tautologica, attraverso il quale il sapere che essa offre si manterrebbe sul piano puramente verbale.

Secondo quanto affermato negli Analitici Primi, tuttavia, la petizione di principio non può essere considerata un’inferenza errata. In An. Pr. 65a 17-18 Aristotele sottolinea come la circolarità della dimostrazione possa essere impedita “dall’impossibilità della sostituzione, non già dall’impostazione del ragionamento”, attestando così la bontà formale del sillogismo, subordinata solo al tipo di predicabili coinvolti. Del resto, gli schemi secondo i quali i sillogismi si convertono sono anticipati in un capitolo di poco precedente a quello dedicato alla petitio principii (An. Pr. II, 5), senza che Aristotele ritenga in quella sede di esprimere alcuna condanna per tali forme.
Le ragioni per le quali la fallacia viene sanzionata vanno quindi cercate piuttosto negli Analitici Secondi, ove sono posti i criteri epistemologici che definiscono la specificità del sillogismo dimostrativo. Secondo quanto sostenuto in apertura del secondo libro del trattato, il termine medio è il luogo logico nel quale risiede il contenuto di ogni sapere e di ogni apprendimento. “In tutte le ricerche si indaga se c’è il medio o che cos’è il medio” (An. Post. 90a 5): esso manifesta la causa (dióti esti) di ciò che si intende conoscere per via dimostrativa e ne esprime l’essenza (tí esti); provvede le ragioni per le quali un predicato appartiene necessariamente ad un soggetto, del quale rivela al contempo la natura intrinseca e di cui avanza la definizione. “Il conoscere l’essenza di un oggetto si identifica con il conoscere perché tale oggetto sia.” (An. Post. 90a 31-33). Sapere, ad esempio, che cosa sia il tuono significa comprendere perché esso si verifichi e quindi anche in che modo provochi necessariamente fragore nelle nubi.
Per questo il termine medio costituisce il nucleo al tempo stesso cognitivo e dimostrativo del sillogismo; esso consente di accordare capacità conoscitive allo strumento logico, assicurando anche l’essenziale necessità delle conclusioni tratte. Identificare il medio con uno degli estremi equivale, al contrario, a trasformare il sillogismo in una sequenza inferenziale formalmente reversibile, accettabile secondo l’ottica degli Analitici Primi, ma inadeguata rispetto ai compiti ulteriori che ad esso vengono attribuiti negli Analitici Secondi. Il sapere discorsivo riposa su conoscenze anteriori, su principi, fra i quali Aristotele annovera le definizioni. La petizione di principio non dimostra in quanto, sopprimendo il termine medio, non rinvia alla preventiva comprensione dell’essenza, non assume correttamente la definizione, solo a partire dalla quale è possibile dedurre le proprietà necessariamente predicabili di una sostanza.
Definizione e dimostrazione sono termini problematicamente correlati all’interno del sistema aristotelico, tanto che una lunga discussione (An. Pr. II 3-8) viene dedicata a chiarirne i reciproci rapporti e a sancirne infine la mutua irriducibilità. La prima e più immediata linea argomentativa adottata da Aristotele per sostenere tale opposizione si basa, appunto, sull’osservazione che ogni sillogismo che intenda provare la definizione e l’essenza è inevitabilmente votato alla circolarità. Poiché nella dimostrazione si assume l’essenza, non è possibile provare ciò che si è preventivamente posto fra le premesse, senza compiere con ciò una petizione di principio (An. Post. II, 4). Vista nell’ottica dell’opposizione fra dimostrazione e definizione, dunque, la petizione di principio deriva dal tentativo di sovrapporre indebitamente due strumenti conoscitivi che secondo Aristotele occorre distinguere. Si tratta di un modo per dimostrare una definizione (di dimostrare i principi), o, al contrario, di dare per definizione (la quale, a differenza della dimostrazione, è fondata su un rapporto effettivamente convertibile fra definiens e definiendum) ciò che si era inteso dimostrare.
Fin qui, tuttavia, l’argomentazione aristotelica appare a sua volta circolare: i ragionamenti circolari sono vani poiché non assumono principi anteriori; è necessario, viceversa, dimostrare sulla base di principi anteriori, poiché altrimenti si producono argomentazioni circolari. Messa in questi termini, la denuncia della petizione di principio si basa essa stessa su una petizione di principio, sull’ assunzione indimostrata dell’esistenza di un ordine gerarchico all’interno di ciascuna disciplina, tale per cui sia possibile e necessario distinguere le ragioni intrinseche ed anteriori dalle conseguenze che ne derivano. Occorre per questo introdurre un’ulteriore ragione che arresti il circolo teorico e che spieghi perché la petitio principii sia considerata viziosa.
Definizione e dimostrazione vertono, aggiunge Aristotele, su momenti differenti del conoscere. La definizione mostra “che cosa” qualcosa sia (tí esti), esprime l’essenza, ma non comporta alcuna diretta assunzione circa l’esistenza dell’oggetto definito; la dimostrazione prova “che” qualcosa sia (hóti esti), ovvero che un predicato appartiene ad un soggetto in virtù della sua essenza; essa conduce all’affermazione di esistenza (An. Post. 91a 1-3). Poiché essenza ed esistenza sono considerate dimensioni diverse dell’essere e contenuti distinti del sapere, è necessario prevedere anche percorsi cognitivi alternativi, che sanzionino l’eterogeneità dei rispettivi oggetti. Sotto questo aspetto la denuncia della petizione di principio, il rifiuto cioè di appiattire la definizione sulla dimostrazione, dipende al fondo dall’intenzione filosofica di discernere l’aspetto intensionale da quello estensionale. Ambiti fra loro irriducibili e proprio per questo correlati da Aristotele entro la struttura del sillogismo, secondo una dinamica che prevede sì un reciproco rimando, ma non la loro assimilazione.
Essenza ed esistenza sono termini effettivamente legati da presupposizione reciproca e circolare entro la gnoseologia aristotelica. Da un lato, infatti, è possibile cercare la causa solo di ciò che esiste, perché “cercare cos’è un oggetto, senza sapere che esso è, significa non cercare affatto” (An. Post. 93a 26-28). In questo senso, dunque, l’esistenza costituisce un presupposto necessario per la successiva indagine circa l’essenza. D’altro canto, solo quando sia stata posta la causa è possibile dimostrare il fatto che un predicato appartiene ad un soggetto, ad esempio, che la luna subisce un’eclisse. Ancora, sapere che qualcosa è, significa anche sapere che esiste un termine medio (An. Post. 89b 37 – 90a 1) e, per questo, “nella stessa misura in cui sappiamo che un oggetto è, noi siamo pure in un certo rapporto con la sua essenza” (An. Post. 93a 28-29). E tuttavia, solo quando sia stato individuato il medio, diventa possibile dedurre le proprietà di un fenomeno, colto in quanto tale.
Fra essenza ed esistenza si instaura allora un rimando paradossale, il medesimo che intercorre fra definizione e dimostrazione, del quale lo stesso Aristotele si mostra consapevole nei luoghi in cui riconosce come i due aspetti vengano alle volte colti contemporaneamente (An. Post. 93a 18), ma che non deve per questo tradursi in immediata circolarità, attraverso la quale due termini ontologicamente eterogenei verrebbero di fatto equiparati per via logica. Il sillogismo non dimostra l’essenza ma, nell’assumerla, la esibisce e ne sviluppa le potenzialità, provando a partire da essa le proprietà dei fenomeni successivamente predicabili secondo necessità: “Si è dunque detto, come l’essenza venga assunta e risulti manifesta. In tal modo, non può bensì svilupparsi un sillogismo, o una dimostrazione, che deduca l’essenza, ma l’essenza si fa tuttavia chiara con l’aiuto del sillogismo e della dimostrazione.” (An. Post. 93b 15-18). Mentre dei principi primi e indimostrabili si colgono al tempo stesso “l’essere e la determinazione dell’essere” (An. Post. 76b 5-6), lungo il corso delle dimostrazioni che ne derivano i due piani vengono distinti e reciprocamente articolati, fondando così di diritto l’opposizione fra l’accezione esistenziale e quella predicativa del verbo “essere”. Prendendo le distanze dall’idealismo platonico, che prevedeva l’attribuzione di esistenza separata e superiore ai predicati (e, attraverso Platone, dai residui dell’ontologia eleatica), Aristotele apre così lo spazio problematico entro il quale si muove la sua filosofia della conoscenza, scissa fra i presupposti realisti, secondo i quali soltanto le sostanze individuali sono esistenti, e la vocazione intellettualistica, per la quale solamente le predicazioni universali sono propriamente oggetto di sapere scientifico. La mediazione operata dal sillogismo è allora innanzitutto mediazione fra particolare e universale, fra un soggetto e i predicati che ad esso ineriscono successivamente e per sé, compito questo nel quale si realizza il senso stesso dell’attività conoscitiva elaborata attraverso il lógos. Capacità di discriminare l’essenza (héxis kritiké), di astrarre l’eîdos di una sostanza, la sua struttura intelligibile oltre, ma anche a partire da, la sua esistenza individuale. Per questo, sopprimendo di fatto il termine medio, la petizione di principio impedisce al sillogismo di svolgere la sua propria funzione, trasformandolo in una sequela vana per quanto formalmente ineccepibile.
Se la funzione mediatrice del linguaggio, se il compito del discorso correttamente praticato è quello di individuare e di mettere alla prova unità intensionali effettive, la petitio principii, ammoniva Aristotele già nelle Confutazioni Sofistiche, deriva al contrario dall’indisponibilità a distinguere ciò che è identico da ciò che è diverso (Soph. El. 167a 38-40). Rinunciando a indicare preventivamente “che cosa” qualcosa sia, attraverso di essa diventa allora possibile affermare di un oggetto solamente, e in via puramente ipotetica, “che è, se è” (An. Pr., 65a 7).
UN SILLOGISMO IMPOTENTE

Sia che, dal punto di vista analitico, si interpreti la petizione di principio attraverso il rapporto fra definizione e dimostrazione, sia che, da quello dialettico, la si consideri una procedura inadeguata per la ricerca dei principi, anch’essi delle definizioni, in un caso come nell’altro la fallacia investe la vocazione semantica del linguaggio, per come viene articolata dalla sintassi logica del discorso. Il piano teorico rispetto al quale la petitio principii è pertinente è allora quello dianoetico e non quello logico formale, secondo il quale, al contrario, le argomentazioni circolari appaiono inattaccabili. Anzi, la fallacia deriva proprio dalla tentazione di integrare l’apprensione dei principi entro il processo dimostrativo, rendendo così autosufficiente la sillogistica, ma producendo per questa via un sapere altrettanto vuoto, quanto formalmente garantito. “Logikôs kaì kenôs” dice Aristotele in Eth. Eud. 1217b 21, dove vuole significare la degenerazione verbalistica del discorso; “logikós” è il termine che ritorna in An. Post. 93a 15 a proposito del sillogismo che vorrebbe dimostrare l’essenza. Contro tale concezione solo formale della dimostrazione, la clausola che vieta di sopprimere il termine medio vincola il sillogismo apodittico a riferirsi al mondo delle sostanze e dei fatti, individuati attraverso la comprensione della loro essenza. La logica si carica così di una portata al tempo stesso ontologica e semantica.
Al fondo, la denuncia della petizione di principio costituisce quindi una difesa dello stesso essenzialismo (e per questo Aristotele torna sulla fallacia nei luoghi più disparati dell’Organon), definito ex negativo attraverso il rifiuto di un sapere nominalistico e tautologico. La presenza del sofisma appare quindi contraddittoria rispetto alla lettura dei testi aristotelici di quanti hanno voluto riconoscere nell’analiticità il fondamento del concetto aristotelico di necessità. Un’interpretazione diffusa dall’opera di Jacques Chevalier (1915), ma che è stata successivamente criticata da Willard Quine (1953: 155), da Suzanne Mansion (1976: 319, n. 17) e da Richard Sorabji (1981). Come è stato sottolineato, la ricerca dell’essenza presuppone secondo Aristotele l’osservazione empirica di istanze individuali, il cui solo esame può rivelare il complesso di proprietà che occorre spiegare attraverso una causa unica ed unificante (An. Pr. 46a 18-28, Hist. Anim. 491a 9-14). Tale affermazione di ordine metodologico si traduce poi nell’assunzione teorica più generale secondo la quale è possibile cogliere l’essenza solo di ciò di cui si assume l’esistenza; in mancanza di un referente concreto, ad esempio, si può sapere cosa significhi la parola “ircocervo”, ma non cosa sia un ircocervo (An. Post. 92b 5-8). Se però il giudizio circa l’essenza è basato sull’esperienza, in nessun modo può essere considerato a priori e quindi analitico, se non per stipulazione successiva.
Così come le essenze, anche le definizioni rinviano per Aristotele al mondo extralinguistico, istituendo un nesso stabile con la realtà quale non può essere assicurato dalle definizioni nominali, quelle cioè che esprimo il significato di un termine ma non l’essenza dell’oggetto denotato, se non in modo accidentale o parziale. Il problema soggiacente alla denuncia della petizione di principio è dunque quello della distanza, per la prima volta avvertita, fra mondo e linguaggio, che necessita di una mediazione essenziale e non di una riduzione circolare. È il tema che apre e che motiva la ricerca intorno alle confutazioni dei sofisti, oltre che, secondo Pierre Aubenque, l’intera speculazione aristotelica sul linguaggio: poiché i nomi sono di numero finito, mentre infiniti sono gli oggetti che questi denotano, non può esserci corrispondenza fra i due insiemi, a meno che ciascun termine non rinvii a una pluralità di oggetti, unificati per la condivisione di una comune essenza (Soph. El. 165a 10-18). Il ricorso all’universalità, allora, ancor prima che assunzione teorica forte circa lo statuto epistemologico del sapere dimostrativo, costituisce per Aristotele la soluzione necessitata del problema della significazione, la condizione stessa alla quale il linguaggio possa fare presa sull’essere.
Il tema posto dalla petizione di principio è allora quello stesso della possibilità del senso, di come cioè il linguaggio sia significativo, benché, parlando in generale, si riferisca al mondo attuale e singolare. Da questo punto di vista la petitio principii costituisce una risposta inadeguata alla costitutiva infermità del linguaggio, impedito dalla penuria nominum, e forse anche per questo la fallacia, nella sua variante generata dal ragionamento attraverso divisione, viene definita da Aristotele un “sillogismo impotente”; impotente nel cogliere l’essenza e quindi nel dire alcunché di determinato, così come nel trarre dimostrazioni necessarie.
La petizione di principio si colloca dunque su un crocevia epistemologico, semantico e pragmatico, un luogo teorico complesso di natura semiotica piuttosto che logica, dal quale può essere facilmente compresa. Mancando di un riferimento all’universalità, il discorso non produce senso condivisibile e non può quindi risultare né dimostrativo, né convincente. In generale, dire di qualcosa che è quello che è, sarà sempre vero fintanto che vale il principio di identità, ma, banalmente, non significa nulla, o, quantomeno, nulla più di quanto già si sappia.
In questo modo Aristotele si confronta con i sofisti, affrontandoli anche sul loro stesso terreno, quello dell’efficacia retorica. All’illusione sofistica dell’onnipotenza del linguaggio, svincolato da ogni costrizione ontologica e libero per questo di convincere di qualsiasi tesi, di sostenere qualsivoglia fra due affermazioni contraddittorie, Aristotele oppone la reale impotenza delle false dimostrazioni eristiche, affermando l’inutilità anche pragmatica di strategie argomentative che non si pongano entro il dominio dell’essere. Per risultare convincenti occorre tendere verso la verità, perché, come si dice nella Retorica, opera nella quale le considerazioni di ordine epistemologico sono allentate a fronte dell’interesse prevalente per il problema della persuasione, “per natura la verità e la giustizia sono più forti dei loro contrari”, cosicché se i giudizi non avvengono come si dovrebbe, è necessariamente perché si è inferiori ad essi.” (Rhet. 1355a 21-23).

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NOTE AL TESTO


Cfr. An. Pr. 64b 27-29: “Il pretendere – ottenendo poi la cosa – che venga concesso quanto si è fissato da principio come oggetto della prova, consiste anzitutto – tanto per determinarne il genere – nel non dimostrare quanto ci si è proposto.”
Questa, almeno, è l’ipotesi di Barnes, Proof and the syllogism, p. 45, in Berti (a cura di, 1981).
A fronte di un’ampia bibliografia a proposito della petizione di principio e di una sterminata letteratura intorno alle tematiche epistemologiche che essa interpella entro la filosofia aristotelica, si contano solo pochi contributi che abbiano analizzato la fallacia secondo la prospettiva dello Stagirita. Oltre agli gli articoli citati del Robinson, si rimanda a Hamblin (1970), Woods e Walton (1982). Caso a parte è quello del Traité de l’argumentation di Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca (1956), i quali, pur trattando il sofisma entro una prospettiva dichiaratamente neoaristotelica, ne restituiscono un’interpretazione essenzialmente difforme dalla lezione originale dell’Organon.
Secondo il punto di vista del Robinson, il principio postulato sarebbe quindi da intendere piuttosto come “conclusione” e arché dovrebbe essere interpretato secondo l’accezione temporale del termine. Tale lettura è stata condivisa da Mario Mignucci nella sua edizione critica degli Analitici Primi (p. 661), che cita a sostegno una consolidata tradizione critica. Su questo presupposto Giorgio Colli, traduttore dell’Organon per Einaudi e per Laterza, rende arché con “quanto si è fissato da principio come oggetto della prova”.
Una posizione solo parzialmente diversa è stata sostenuta da Robin Smith, il quale riconosce nel suo commento agli Analitici Primi l’interferenza a proposito della petizione di principio di un’originaria e decisiva dimensione dialettica, così come di problematiche epistemologiche trattate negli Analitici Secondi. Secondo lo Smith, tuttavia, la sovrapposizione di prospettive così distanti è motivo di imbarazzo e causa di facili fraintendimenti, piuttosto che guida alla comprensione del senso profondo della fallacia.
Fra i critici che hanno contribuito a rivalutare il ruolo della dialettica entro il sistema aristotelico, affiancata piuttosto che opposta all’analitica, basti qui citare Erik Weil (1951), Leo Lugarini (1959) ed Enrico Berti (1972, 2004).
Riproduco la notazione utilizzata da Mario Mignucci (p. 662), che interpreta in questo caso le lettere schematiche come variabili su proposizioni, seguendo in ciò una tradizione consolidata.
Il punto è stato sottolineato da Irwin (1988: tr. it., 160): “Aristotele ha diritto di richiedere una priorità epistemica globale e non solo locale [vale a dire all’interno di un campo disciplinare e non di una singola dimostrazione], solo se mostra che un’argomentazione circolare non conferisce giustificazione […]. La sua argomentazione sembra assumere qui ciò che deve essere dimostrato: noi infatti saremo convinti che c’è qualcosa di errato in un sistema che non concede la priorità globale, solo se siamo già convinti che c’è necessariamente qualcosa di errato in argomentazioni circolari.”
An. Post. 92b 8-9: “Ma allora, se di un oggetto si dovrà provare che cos’è e che è, come si potranno provare entrambe le cose con una medesima argomentazione. In realtà, tanto l’espressione definitoria quanto la dimostrazione rivelano una sola cosa, mentre il dire che cos’è l’uomo differisce dal dire che l’uomo è.” La stessa tesi viene anticipata già all’inizio della discussione circa il rapporto fra definizione e dimostrazione, in An. Post. 90b 39 – 91a 3.
Mansion (1976: 169) analizza il rapporto di presupposizione reciproca fra essenza ed esistenza, distinguendo fra un primo momento della ricerca e quello successivo della dimostrazione, così da evitare di identificare i due termini entro un rimando circolare: “La démarche intellectuelle du savant débute par une interrogation. On se demande si un fait ou une chose existe. La réponse trouvée, on poursuit l’investigation. Pourquoi ce fait existe-t-il, qu’est-ce que cette chose ? […] Le mouvement de la recherche scientifique pousse donc l’esprit à remonter jusqu’à la cause. Mais, arrivé à ce point, il devient possible de redescendre en quelque sorte vers le point de départ. La cause explique les constatations dont on était parti, elle est la base d’une démonstration.”
Va sottolineato come nel definire lo statuto dei principi primi (An. Post. I, 10) Aristotele scelga esempi tratti dalla geometria e dalla matematica, discipline astratte, quindi, il cui oggetto è pura “materia intelleggibile”, húle noeté (Met. 1037a 5), interamente definita dalle proprie determinazioni formali, senza riferimento ad un sostrato. Laddove articola la distinzione fra definizione e dimostrazione, ricorre invece significativamente a casi tratti da discipline fisiche, quali l’eclisse di luna e il tuono; analizza cioè, eventi comunque esistenti, indipendentemente dall’identificazione della loro essenza. Simili oscillazioni rinviano alla più ampia discussione circa il ruolo svolto dalla matematica e dalla geometria preeuclidea come modelli del sapere deduttivo, a fronte di un’analoga se non prevalente attenzione aristotelica per le discipline biologiche.
Il problema del Menone viene affrontato anche negli Analitici Primi (67a 15-25): “In realtà, l’espressione «sapere che la somma degli angoli equivale in ogni triangolo a due retti» non ha un significato semplice: si dice così, da un lato, in quanto qualcuno possiede una conoscenza universale della cosa, e d’altro lato, in quanto qualcuno conosce ciò riguardo all’oggetto singolo […]. Dallo stesso punto di vista, si può criticare poi l’argomentazione sviluppata nel Menone, secondo la quale l’apprendimento è reminiscenza; si deve dire piuttosto che mentre si sviluppa l’induzione noi assumiamo la conoscenza degli oggetti particolari, come se li riconoscessimo.”
Cfr. Met. 1087a 14-25; An. Post. 86a 22-29.
Cfr. Aubenque (1962: 53): “Pour résoudre les difficultés soulevées par l’ordre de la connaissance, Platon niait que la connaissance eût un ordre autre que circulaire : la connaissance est d’amblée totale ou elle n’est pas.”
La questione, lungamente dibattuta, è stata inizialmente posta da Jonathan Barnes (1969), il quale aveva sostenuto che gli Analitici Secondi riguarderebbero solo l’ordinamento per scopi di economia didattica di conoscenze altrimenti acquisite. Tuttavia, se è vero che la dimostrazione presuppone principi anteriormente noti, dai quali non resta che trarre le conseguenze, ciò non vieta però che l’intero sistema dimostrativo sia costruito come risposta alle diverse domande che lo scienziato può porsi, e mantenga perciò traccia dell’originario processo di ricerca. Questa sembrerebbe essere la prospettiva adottata da Aristotele, quando equipara esplicitamente i “contenuti del sapere” ai “contenuti dell’indagine” (An. Post. 89b 23-25). Akril (1981: 363) ha segnalato il ricorrere frequente di lemmi riconducibili al campo semantico dell’indagine (thetéo, heurísko, lambáno) entro gli Analitici Secondi, che sembra indicare la presenza latente, se pur non esplicitamente tematizzata, del problema della ricerca all’interno della teoria dell’apodissi. Sulla base di questa presupposizione e a parziale rettifica della tesi di Barnes, vari lavori sono stati dedicati al tentativo di disimplicare la teoria della ricerca scientifica presupposta dagli Analitici Secondi, che si accordasse con il metodo effettivamente praticato da Aristotele nelle sue opere scientifiche (cfr., Bolton, 1987, Bayer, 1995).
Come ha mostrato Mill (A System of Logic, 1843: tr. it., 282), una interpretazione dell’universalità in termini solo estensionali non evita che il sillogismo si traduca in una petizione di principio, attraverso la quale si asserisce ciò che è preventivamente noto per ciascun membro della classe considerata e che si assume attraverso una semplice generalizzazione nella premessa maggiore.
Cfr. Met. 1011a 18-20: “Infatti, tutto ciò che appare è tale solo relativamente a qualcuno.”
Sarebbe quindi opportuno riconsiderare la classificazione delle fallacie extra dictionem avanzata nelle Confutazioni Sofistiche, verificando le eventuali sovrapposizioni interne. Costituiscono, ad esempio, delle petizioni di principio i paralogismi basati sulle conseguenze, la cui apparente validità dipende dal fatto che “si crede che il rapporto fra ragione e conseguenza sia convertibile” (Soph. El. 167b 2-3). Anche il sesto paralogismo, che consiste nel porre come causa ciò che non lo è, viene ricondotto alla petizione di principio in Soph. El. 169b 12-17. Il nesso fra le due fallacie è chiarito in An. Post. I, 13, ove Aristotele oppone il sillogismo del “perché” (dióti) a quello del “che” (hóti), privo della indicazione della causa. Il sillogismo del “che”, infatti, può verificarsi secondo due sole modalità: o perché non si sviluppa sulla base di premesse immediate ma attraverso un medio posto al di fuori degli estremi, o perché “discende non già dalla causa, bensì dal più noto fra due termini che si convertono.” (An. Post. 78a 27).
Cfr. Top. 101a 34 – 101b 4: “Questo trattato è poi utile altresì rispetto ai primi tra gli elementi riguardanti ciascuna scienza. Partendo infatti dai principi propri della scienza in esame, è impossibile dire alcunché intorno ai principi stessi […]. Questa è peraltro l’attività propria della dialettica, o comunque quella che più le si addice: essendo infatti impiegata nell’indagine, essa indirizza verso i principi di tutte le scienze.” La centralità di questo passo per una piena comprensione del ruolo e dell’utilità della dialettica è stato a più riprese sottolineata da Enrico Berti, da ultimo in L’uso «scientifico» della dialettica in Aristotele, in Berti (2004: 265-282).
Allo scopo di evitare la falsificazione, cioè, ci si avvale della seconda fra le due condizioni determinate dall’assenza di una premessa universale: in un caso si assume ciò che si intende provare; nell’altro “il sillogismo non si rivolgerà all’oggetto stabilito” (An. Pr. 41b 6-14).
Sembra questo il senso della clausola posta a conclusione del capitolo dedicato alla petizione di principio nei Topici: “l’errore riguarda la conclusione (è infatti questa che noi teniamo presente, dicendo che si è postulata la proposizione inizialmente fissata).” (Top. 163a 26) Al di là della descrizione dei cinque modi attraverso i quali si genererebbe una petitio principii nel contesto dialettico, un catalogo trascurabile perché redatto anteriormente all’elaborazione della teoria del sillogismo, entro un contesto teorico, quindi, incapace di definire la fallacia come inferenza non mediata, il senso della petitio principii risiederebbe nella scelta delle premesse, strumentali alla dimostrazione della conclusione cercata, piuttosto che ad una sua eventuale critica.
Owen (1961) ha mostrato l’interferenza fra l’analisi empirica dei dati percettivi e quella dialettica delle opinioni notevoli (éndoxa), considerate allo stesso titolo procedure utili per la ricerca dei principi. Secondo Owen, così come le opinioni notevoli, anche i dati percettivi non sono da Aristotele considerati certi e costituiscono quindi materiale grezzo sul quale condurre l’analisi; viceversa, le opinioni notevoli valgono come schegge di realtà codificate dal linguaggio. Da ciò la possibile sovrapposizione fra éndoxa e phainoména, concetti entrambi appartenenti ad un regime gnoseologico assoggettabile a revisione critica e a falsificazione. Berti (2004: 274) suggerisce che phainoména andrebbe quindi tradotto con “pareri”, restituendo così l’ambivalenza fra l’accezione fenomenica e quella discorsiva del termine.
Cfr. Aubenque (1962: 286, n° 2): “En résumé, la dialectique réfute réellement (c’est alors qu’elle est critique) ; mais elle ne démontre pas qu’en apparence, aussi bien dans le cas d’une conclusion vraie que dans celui d’une conclusion fausse […]. La dialectique est donc légitime dans ce qu’elle nie, éristique dans ce qu’elle affirme.”
Sten Ebbesen (Commentators and Commentaires on Aristotle’s Sophistci Elenchi, vol. 1, pag. 127, 1981) ha sottolineato come a partire da Ammonio la categoria dei sofismi éxo tês léxeos sia stata frequentemente definita parà tén diánoian.
Cfr. Landor (1985: 122): “The reason why Aristotle calls syllogisms of the essence logikós, should not be separated from the question of why he considered them not to be demonstrative, for he affirms that they are logikós and denies that they are demonstrative in one and the same sentence […]. In that case, the reason that Aristotle calls such syllogism logikós is that they beg the question.”
Cfr. Aubenque (1962: 131): “L’expérience de la distance [entre le langage et l’être], éprouvé par la première fois dans la polémique contre les sophistes, est donc le véritable point de départ de la philosophie aristotélicienne du langage […]. Avec Aristote, l’étonnant n’est plus que l’on puisse mentir ou se tromper, mais bien qu’un langage qui repose sur des conventions humaines puisse signifier l’être.
Cfr. Aubenque (1962: 116): “On pressent ici qu’Aristote voit dans le recours à l’universel moins une conquête de la pensée conceptuelle qu’une infirmité obligée du discours.”
Cfr. An. Pr. 46a 32-35: “In realtà, la divisione è qualcosa come un debole sillogismo: ciò che occorre provare, essa lo postula.”

FRA DIFINIZIONE E DIMOSTRAZIONE
in "Fenomenologia e società", 2006 n. 2, pp. 123-142.